Tutti noi sappiamo cosa sono le abitudini. Nella vita di tutti i giorni, ci troviamo guidati, regolati da invisibili fili ai quali affidiamo le nostre azioni: la successione dei nostri gesti al mattino, la colazione prima di vestirsi o dopo, quella particolare tazza, guardare i messaggi prima di uscire o guardarli alla fermata dell’autobus. Prendere la solita strada, entrare nel solito bar, leggere lo stesso giornale sfogliandolo allo stesso modo. E così via, in un’infinità di modulazioni anche minime, alcune evidenti altre più nascoste, fino al termine della nostra giornata.

Eppure, se proviamo a prestare attenzione al momento in cui decidiamo, per esempio, di prendere la strada abituale invece dell’altra, che è sempre lì a nostra disposizione, non ci riusciamo. E’ tutto invisibile, potente, silenzioso, tessuto stretto: siamo noi.  Citando il poeta inglese John Dryden, “Prima costruiamo le nostre abitudini, poi le nostre abitudini costruiscono noi”. Le abitudini, persino quelle buone, ci confermano continuamente nella nostra identità, sono cose che facciamo, diciamo e pensiamo che portano a galla il nostro senso di sé.

Peter Della Santina diceva che le abitudini assomigliano a letti di fiumi, più o meno profondi, entro i quali scorrono i torrenti dell’azione. Ma c’è stato un momento, nella nostra vita, in cui l’azione ha avuto modo di espandersi in un terreno piano, non segnato da solchi predisposti? Credo che perfino all’origine della nostra vita individuale, muovendo i primi passi nel mondo, qualche segno sul terreno, per quanto leggero, ci fosse già, per ciascuno di noi, perché arriviamo nel mondo con un bagaglio di eredità biologica e un programma genetico che sono il risultato di azioni, spesso abitudini, non nostre.

Nella tradizione buddhista, l’insieme di questo tracciato predisposto e delle nostre azioni di conferma di questo stesso tracciato, viene chiamato sankhara. Ovvero, insieme, la nostra tendenza a interpretare, capire, gustare e percepire il mondo attraverso gli schemi che ci ritroviamo e le nostre azioni che confermano e approfondiscono questi stessi schemi. La nostra comprensione del mondo, in ogni situazione, è condizionata da questa attitudine.

Davanti a un particolare fenomeno o evento siamo più attenti a questo o a quel particolare a seconda degli schemi che abbiamo alle spalle: la realtà si presenta già pre-capita. Ed è curioso osservare come l’assecondare questa pre-comprensione ci dà un senso vago di soddisfazione, quasi un sollievo. Pensiamo, per esempio al piacere che ci viene dal vedere confermate le nostre opinioni, come sentiamo di avere ancora e ancora bisogno di questo piacere sottile.

catena1Sankhara è un importante anello nella catena che porta all’azione e al perpetuarsi di una situazione di sofferenza, il cosiddetto ciclo della rinascita, samsara. Gli anelli tradizionalmente sono 12 e sono tutti strettamente connessi tra di loro, diversi aspetti di uno stesso fulmineo flash di pensiero-azione, qualcosa che si verifica continuamente durante la nostra giornata. Prayudh Payutto ce ne dà un esempio dettagliato in un passaggio che ho tradotto da un suo testo dedicato all’Originazione Dipendente e che si trova in fondo al post.

Ed eccone un altro esempio, sempre dalla nostra vita di tutti i giorni, tratto e adattato dal forum Buddhism Without Boundaries:

Senza sapere perché (ignoranza), entro in una pasticceria che conosco. In realtà sto rifacendo qualcosa che ho fattobrioche più volte e che associo a una certa soddisfazione (impronta, sankhara). Entrando, la mia attenzione è attratta da profumi che considero buoni (coscienza). Arrivando al banco (forma) i miei sensi sono eccitati (sensi). Vedo le paste (contatto), in particolare una brioche al miele (sensazione). Sento l’urgenza di avere subito quella brioche (desiderio). Mi pongo il problema della linea ma niente: devo avere quella brioche (attaccamento). Prendo la brioche e la porto al banco (divenire il consumatore). L’addento (nascita di un sé) e a ogni boccone la brioche diminuisce o diventa meno attraente (vecchiaia e morte) fino al ritorno al senso originario di insoddisfazione (dukkha).

L’ignoranza, che colora tutto il rapido (spesso istantaneo) processo, è ignoranza della vera natura dell’insoddisfazione. Ma la radice di tutto il samsara, del continuo riprodursi della sofferenza, sta nel secondo anello: sono le attitudini, le impronte mentali, le abitudini, che alla fine condizionano l’azione. Per usare le parole stesse di Nagarjuna: 

Avvolto nel buio dell’ignoranza,

uno agisce i tre tipi di azione

che, in quanto attitudini, lo spingono

a continuare in future esistenze

(MMK, 26, 1)

I tre tipi di azione (parole, pensieri, atti), confermando le abitudini ovvero l’idea di sé, riproducono la condizione iniziale di sofferenza.

In qualsiasi momento del processo, il ciclo può essere interrotto. Ma non attraverso un atto di volontà bensì grazie all’intervento della consapevolezza, che lava via il colore dell’ignoranza. Uno sguardo privo di qualsiasi senso di colpa, senza rimprovero e senza giudizio. Osservata con questa consapevolezza, l’azione perde gradualmente il suo carattere abitudinario e apre a un mondo nuovo.

Un esempio di originazione dipendente nella vita di tutti i giorni.

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