Chi traduce dall’inglese conosce l’esistenza dei false friends, termini apparentemente uguali nelle due lingue eppure di diverso significato, dei veri e propri tranelli linguistici. Eventually, per esempio, non significa eventuale bensì alla fineDelusion significa illusione (nel senso anche di delirio) e non delusione.
Sono affascinanti sovrapposizioni, spesso inversioni, di significato: tipici di lingue vicine, come sono quelle romanze, che hanno proceduto da fondamenti comuni in modo parallelo e con molti scambi.

I traduttori sono abituati a questi falsi amici, li riconoscono con affetto. Eppure qualche volta anche a loro capita di cadere in qualche tranello. E’ il caso di questo passo di Emozioni distruttive, la cui traduzione italiana è firmata da un noto professionista, dove a pagina 123 (ed. Mondadori) si legge:

La gelosia può essere intesa come l’incapacità di gioire della felicità altrui. Non si prova mai gelosia per la sofferenza di qualcuno, ma per la sua felicità e per le sue doti. In una prospettiva buddhista, si tratta di un’emozione negativa. Se il nostro obbiettivo consiste precisamente nell’arrecare benessere agli altri, dovremmo essere contenti se trovano la felicità da soli. Perché mai esserne gelosi?

Ora, a me sembra che qui si stia parlando di invidia e non di gelosia. E infatti gli americani, e anche gli inglesi, spesso usano il termine jealousy per definire quello che noi conosciamo come invidia. Il termine preciso c’è anche in inglese ed è envy ma gli americani tendono a usare i due termini in modo indifferenziato, con preferenza per il primo. Per cui, il nostro “Che invidia!” è tradotto con “I’m jealous!“. Naturalmente per noi le due emozioni sono ben diverse tra loro, sia nelle rispettive manifestazioni che nella loro radice: la gelosia è una modalità forte dell’attaccamento mentre l’invidia sembra piuttosto una modalità debole dell’avversione. Entrambe sono processi distruttivi richiamati da un sé identitario che ha bisogno di conferme; ma certo nessuno, di lingua italiana, si sognerebbe di confonderle tra loro.

Questa leggera svista, capitata a un bravo traduttore e a tutti i redattori della catena editoriale che porta al libro, ci fa tuttavia pensare a quanti equivoci e confusioni possa essere soggetto un testo nel momento in cui passa da una lingua all’altra. E se lo è persino quando le due lingue sono sorelle, come le lingue romanze, possiamo immaginarci cosa succede quando i testi passano dal sanscrito o dal  pali al tibetano all’inglese all’italiano. Come, del resto, anche dall’aramaico al greco al latino: la storia è piena di equivoci consolidati, fondati su malintesi originari ormai dimenticati, come nel caso di alcuni dogmi del Cristianesimo.

Se questi malintesi hanno a che vedere con la lingua, ovvero con la traduzione di singoli termini, esiste tuttavia anche un piano semantico di non corrispondenza di significati tra una cultura lontana e un’altra. Termini come cittakarunaupekkasati vagano nella nostra lingua in cerca di un luogo sicuro finendo per assestarsi in qualche modo che dovrebbe essere provvisorio e che poi, a volte per comodità, diventa definitivo, spesso colorando quelle espressioni linguistiche, che all’origine sono solo suono, di significati che appartengono a un’altra storia. 20140216_080540_2

In filosofia, del resto, si parte anzitutto dalla definizione rigorosa dei termini, e infatti il legame filosofia-filologia è sempre stato essenziale. Non è tempo perso, è anzi la premessa necessaria per non perdere tempo.

Meglio allora usare i termini originari? Forse, almeno ogni tanto, sì, ma solo per ricordarsi che hanno una forza diversa, che rappresentano idee in cerca di collocazione. Nella ricerca di un Buddhismo occidentale, quello che certamente sarebbe meglio fare è evitare di affidarsi (soltanto) alle fonti intermedie e avvicinarsi il più possibile ai testi originali.

Fra questi ci sono certamente i grandi Sutra del Canone pali e del periodo Mahayana ma anche l’importante riflessione razionale di Nagarjuna e della filosofia indiana. I Tibetani ci hanno consegnato l’intero corpo della scuola di Nalanda salvandola miracolosamente dalla notte del tempo e non saremo mai loro abbastanza grati per questo. Ma non dobbiamo confondere la loro particolare, millenaria riflessione su questi testi, se pure di grande valore, con i testi originali, sorprendentemente vicini alla ragione e al pensiero occidentali.

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